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Per Aspera Ad Veritatem n.25
Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America.

Walter Russel Mead - Collezione Storica Garzanti, 2002



“Siate, disse Cristo ai suoi discepoli, astuti come serpenti e innocenti come colombe”. In questa citazione dalla Bibbia la ragione del titolo dell’interessante libro di Walter Russell Mead che ben esemplifica la linea di comportamento di quello che l’Autore definirebbe un valido statista, in particolare per quel che concerne le scelte di politica estera: colui che è capace di coniugare una buona dose di realismo, un sano e solido pragmatismo e una certa fede negli ideali.
Idealismo e pragmatismo: due aspetti che accompagnano e caratterizzano, anche se in misura diversa, a seconda delle epoche storiche, un po’ tutte le scuole di pensiero cui si sono ispirati coloro che hanno gestito la politica estera americana dal 1776 ad oggi.
Proprio ad illustrare queste linee di tendenza, questi diversi principi ispiratori è dedicato buona parte del libro di Mead. Viene cioè ripercorsa la storia degli Stati Uniti d’America dalla rivoluzione d’indipendenza ad oggi attraverso le più importanti scelte di politica estera adottate dai vari governi che si sono succeduti al potere. In particolare, Mead analizza quattro scuole di pensiero: quella hamiltoniana, quella wilsoniana, quella jeffersoniana e, infine, quella jacksoniana. A ciascuno di questi “quattro modi fondamentali di guardare alla politica estera”, che poi costituiscono, ad avviso dell’Autore, anche altrettanti modi di trattare la politica interna, Mead dedica un capitolo del libro illustrandone i caratteri fondamentali anche attraverso la narrazione di precise vicende storiche. Di ciascuna scuola viene individuata un’asse portante di pensiero costituita, ad esempio, nel caso degli hamiltoniani dalla convinzione dell’importanza di “un’alleanza forte tra governo nazionale e grande business”; per quanto riguarda i wilsoniani, invece, emergerebbe un minore pragmatismo e un più accentuato slancio ideale. Per costoro gli Stati Uniti avrebbero il dovere di costituire un punto di riferimento a livello internazionale a tutela dei diritti dell’uomo, a sostegno dei valori di democrazia e di libertà, in una comunità internazionale in cui nel rispetto della legge sia possibile salvaguardare la convivenza pacifica tra le Nazioni. Più proiettati verso problematiche di politica interna i jeffersoniani. I jacksoniani hanno, invece, come principale obiettivo la tutela della sicurezza e del benessere economico dei cittadini americani, sia a livello interno che internazionale.
Nel corso della storia queste quattro scuole si sono alternate al potere e, ad avviso di Mead, proprio il loro reciproco equilibrio ha consentito di mantenere la politica estera americana entro una linea di sostanziale pragmatismo sulla quale l’Autore esprime un giudizio sostanzialmente positivo: “anche se il sistema americano è tutt’altro che perfetto, le scuole riescono a relazionare tra loro in maniera costruttiva, con piccole e ampie convergenze atte a perseguire scopi di portata diversa”. Il convergere delle differenti posizioni e dei diversi orientamenti di queste scuole e la diversa adesione che ad esse è stata data dai cittadini americani avrebbero garantito alla politica estera americana quel pragmatismo e quella flessibilità necessarie agli interessi del paese. Interessante poi è la notazione, nella parte conclusiva del libro, circa le nuove ed emergenti classi dirigenti americane. Queste ultime, a differenza dei padri fondatori e di coloro che li hanno seguiti, sarebbero assestate su posizioni sostanzialmente distanti dalla maggior parte della popolazione americana. Provenienti quasi tutti dalla upper class americana, cresciuti in college esclusivi, difficilmente arrivano al potere con una minima esperienza personale di ciò che è al di fuori di tale loro realtà. “Gli odierni componenti dello staff del Consiglio di sicurezza Nazionale, del Dipartimento del tesoro o del Dipartimento di Stato, al contrario dei loro predecessori di cinquant’anni fa, non hanno fatto il servizio militare, non hanno passato gran parte della vita al di fuori delle mura universitarie e non hanno avuto grandi contatti con i 250 milioni di americani che vivono al di sotto dello standard della classe medio-alta cui loro invece sono abituati”. Persone con una simile formazione, difficilmente, ad avviso di Mead, saranno in grado di comprendere realmente, esprimere e, soprattutto, rappresentare le esigenze e i bisogni delle altre classi. Ciò rappresenta, secondo l’Autore, un forte limite della nuova classe dirigente. Per chiedere sacrifici bisogna saperli fare in prima persona e avere abbastanza carisma ed autorità per rendere credibile ed auspicabile ciò che si sostiene. L’esistenza di una forte e credibile leadership appare cruciale per la politica estera di un grande paese come gli Stati Uniti.
Leggere questo libro in un momento internazionale così delicato e critico è certamente molto interessante. Suona come un inquietante monito proprio la parte finale del libro, in cui Mead espone più apertamente il suo punto di vista e afferma l’importanza che gli Stati Uniti sostengano in tempo di pace una chiara e coerente politica estera che definisca le proprie relazioni con gli Stati e le organizzazioni internazionali: il tema dell’ordine mondiale e le relazioni degli Stati Uniti con esso è stato il problema centrale della politica estera americana dal 1776 al giorno d’oggi.
Secondo Mead, oggi più che mai, la storia degli Stati Uniti è legata agli eventi che si verificano nel resto del mondo. Tuttavia, nota Mead, “il nostro potere può diventare così grande e l’uso che ne facciamo così confuso che il resto del mondo, per autodifesa, può decidere di coalizzarsi per contenere questo nostro potere e quindi minare la nostra sicurezza nazionale”. Gli Stati Uniti avrebbero quindi il dovere di porsi il problema della propria egemonia internazionale, ricercando vie che partano dagli interessi reali dei cittadini e che, nel rispetto dei valori fondamentali, garantisca la sicurezza delle loro vite, della proprietà, “con i costi minimi in termini di sangue, patrimonio e concentrazione politica del potere”.



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